ESSERCI COL CORPO, PER FAR VIVERE LO SPIRITO DEL TEATRO

 

Racconto di una residenza artistica creativa unica, ma ripetibile.
Quando mi sono trovato a dover spiegare agli undici allievi iscritti alla quinta edizione di FerMENTInScena - Laboratorio Residenziale Teatrale di Montalcino (organizzato da OCRA, Scuola Permanente dell’Abitare, grazie alla Fondazione Bertarelli e la collaborazione del Comune di Montalcino) quale sarebbe stato il percorso didattico e creativo che avevo immaginato, sapevo che non sarebbe stato facile trovare le parole giuste per esprimere con chiarezza le mie intenzioni.
Sapevo che avevo progettato un’esperienza formativa particolare, diversa dalle quattro edizioni precedentemente realizzate con ottimo successo, grandi soddisfazioni e altissima qualità pedagogica. Sapevo che non stavamo cominciando un percorso uguale agli altri: lo sapevo perché venivamo tutti dall’aver vissuto, e in parte vivevamo ancora, una condizione totalmente nuova e sicuramente destabilizzante. Ma li avevo lì, davanti a me, con i loro volti sorridenti, gli occhi accesi di entusiasmo, trasudanti generosità e voglia di tornare a fare teatro, dal vivo, in presenza. Esserci col corpo. Esserci con il corpo, era anche ciò che auspicavo quotidianamente nei giorni di quella strana, quanto indispensabile, reclusione, che sono stati i mesi della quarantena (preferisco quarantena a lockdown). Esserci con il corpo, e non in video, on line, come da molte parti, anche istituzionali, si stava incoraggiando a fare per mantenere in vita il teatro. Ma se è in video non è teatro; esiste già, e si chiama televisione, o è you tube, o sono i social, o è in streaming, o tanta altra roba che però, insomma, non è teatro. Che è fatto di presenza e prossimità, è esserci col corpo. Così mi sono messo a studiare, a scrivere, a progettare, a programmare, ad impegnarmi per farmi trovare pronto, perché prima o poi ne saremmo venuti fuori e avremmo dovuto farci trovare pronti. «Se è ora non è dopo, se non è dopo sarà ora, se non è ora dovrà pure succedere. Essere pronti è tutto.» dice Amleto, ed io l’ho sempre preso alla lettera.
E ora ero lì, pronto, con i miei undici allievi iscritti al Laboratorio Residenziale Teatrale di FerMENTInScena di Montalcino, coraggiosamente ed inaspettatamente riproposto, anche in un anno così difficile, dagli organizzatori, a dover spiegare con parole chiare il mio progetto. Ciò che avevo in mente era un foglio bianco, o quasi; ossia: partire da una traccia per poter creare la messa in scena di una storia tutta da scrivere e tutta da realizzare, ma senza avere l’ansia del finirla, dell’arrivare al compimento. Quello che mi interessava era il percorso per arrivarci, affascinato come sono dall’antropologia teatrale, ossia da dove abbia origine la creazione del teatrale. Da anni cerco di stimolare, di proporre situazioni formative, nelle quali sperimento la possibilità di realizzare una creazione artistica, elaborando drammaturgicamente - in modo condiviso, collettivo, d’ensemble - l’esperienza derivante dai vari esercizi affrontati, dalle varie esplorazioni sperimentate attraverso improvvisazioni, svolte sotto la guida dei docenti. Volevo realizzare la creazione di una performance artistica frutto del confronto tra allievi e docenti, del continuo scambio propositivo all’interno del gruppo, e l’attenta osservazione di ciò che succedeva, vivo e vitale, davanti ai nostri occhi, durante le improvvisazioni suggerite. Il tutto sempre nel confronto propositivo con il gruppo, dove il regista assume semplicemente una funzione pedagogica di orientatore e non di demiurgo. Il regista, nel nostro teatro d'ensemble, indirizza, non comanda. In definitiva volevo dimostrare che uno spettacolo può nascere dal lavoro di tutti, può essere il frutto di una creatività comune, abbattendo la supremazia del regista e dell’autore. Non che non ci sia già stato e ci sia ancora, nel panorama teatrale internazionale, chi queste pratiche già le svolge da anni e con grande qualità e successo, basti citare i grandi teatri d’ensemble, come il Theatre du Soleil, la Schaubhune di Peter Stain, il Taganka di Jurij Ljubimov o il CIRT di Peter Brook, e tanti altri. Ma era farlo noi, farlo qui, in Italia, dove comunque mediamente ancora resiste la dittatura del regista e la sacralità dell’autore. Insomma, forse sono io che ignoro la realtà produttiva teatrale in Italia, e altrove già sviluppano e sperimentano modalità simili, ma volevo provare a vedere se noi saremmo stati capaci di realizzare un percorso simile. Ciò richiedeva a tutti noi, docenti e allievi, il mettersi a disposizione di qualcosa di più grande di un’autorialità artistica: si trattava di sognare e creare uno spazio di relazione e di accoglienza che facesse del teatro un luogo attraversato dal mondo, il perseverare tenace in una utopia umanista e sociale. Che poi spiegarlo agli allievi, alla fin fine, non è stato così difficile. Anzi, hanno subito accettato la proposta e si sono messi a disposizione di questa nuova modalità di lavoro, mettendosi in gioco, e senza alcuna paura del fallimento. Ecco! Sia ben chiaro: un percorso del genere contempla fortemente la possibilità del fallimento. Ma senza questa componente non c’è creatività. Del resto per diventare “artisti” bisogna vivere molte esperienze, anche quelle dolorose; il fallimento è una sfida, se lo si supera, si impara ad avere una voce. Stessa cosa per i docenti. Già, i docenti. Per realizzare una modalità di lavoro simile avevo bisogno di coinvolgere non solo dei bravi e qualificati docenti - quelli li avevamo avuti anche in passato - ma formatori capaci di confondersi, di fondersi e perdersi, nel lavoro di tutti. Persone che, fondamentalmente, avessero fiducia in ciò che stavo proponendo. E li ho trovati. Ho composto un gruppo di lavoro proveniente da esperienze molto diverse, discipline diverse, ma competenze assolutamente complementari, funzionali al progetto, e un’umanità avvolgente e coinvolgente. Componendo un corpo insegnanti con queste competenze: io, per regia e drammaturgia, Daniele Franci, per movimento scenico e coreografia, Andrea Kaemmerle, per improvvisazione e clownerie.
È vero: anche da parte loro, soprattutto in fase di progettazione, durante le nostre telefonate preparatorie al Laboratorio, spesso mi veniva chiesto chi avrebbe fatto cosa, come ci saremmo suddivisi le ore di lezione; allora io spiegavo che avremmo lavorato tutti insieme, che non ci saremmo suddivisi la giornata in ore di lavoro, ma che avremmo tutti partecipato al lavoro di tutti, e che in conseguenza di questo sarebbe venuto spontaneo e naturale, da parte di ognuno di noi, proporre esercizi, stimolati dal lavoro fatto precedentemente dall’altro. E così è accaduto. Si osservava le ore di lavoro di Daniele sul corpo e sul corpo in movimento, e ne derivavano esercizi d’improvvisazione, individuali o corali, sulle relazioni da instaurare tra i ragazzi o con gli oggetti; improvvisazioni di manipolazione o di metamorfosi dell’oggetto; improvvisazioni tra ragazzi e gli oggetti manipolati, aggiungendo poi anche il lavoro sul corpo, sulla fisicità, sul gioco di diventare altri da sé. Tutto organico. E tutto sentito, ascoltato, annotato, per essere poi rielaborato e utilizzato nella performance finale. Un grande esercizio di ascolto anche per noi docenti, vero, reale, concreto: per tutti, e non solo richiesto ai ragazzi. Le cose sono solo relazioni, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Così dice un testo filosofico scritto 18 secoli fa in India da Nagarjuna. Il termine esatto usato da Nagarjuna per descrivere questa mancanza di essenza propria è «vacuità»: le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di, qualcosa d’altro. Questa è stata la grande forza dell’esperienza, eravamo tutti in relazione, grazie a, in funzione di, rispetto a; eravamo in gioco, tutti nella stessa misura e con la stessa responsabilità. Solo questa modalità, solo l’entrare totalmente, e tutti insieme, in questa dimensione, ci ha permesso di lavorare e realizzare ciò che poi abbiamo realizzato. Provare a riempire la vacuità. Un vero fermento creativo. Dopo essere stati per mesi isolati e distanti questa era la sfida, questo era il mio progetto, questa era l’aria che volevo si respirasse: sprigionare arte. E di questo avevamo bisogno. Perché la traccia, il canovaccio da cui volevo partire, e che a tutti avevo dato il compito di leggere, prima di arrivare a Montalcino, era “Totò il buono” di Cesare Zavattini. E che da noi sarebbe stato rivisto e adattato teatralmente, in uno spazio non teatrale, e proposto al pubblico, come dimostrazione finale di lavoro, con il titolo “I poveri disturbano”. Passati i primi tre giorni di residenza a conoscerci, a percorrere esercizi propedeutici a creare quella confidenza e quella fiducia nell’altro, necessari a sentirsi a proprio agio nel darsi e mettersi in gioco; dopo aver osservato e abitato per ore il chiostro dello spazio OCRA di Sant’Agostino, spazio che avevamo a disposizione e che in qualche modo sarebbe stato il nostro spazio scenico, abbiamo cominciato a orientare il lavoro verso l’ideazione scenica. Solitamente, partendo sempre da un gusto personale, una personale fascinazione per un teatro povero, ma ricco di idee, desideroso di stupire ed emozionare attraverso gesti e azioni che creino un continuo e semplice, quasi infantile, stupore, la prima cosa su cui mi concentro e da cui parto nella realizzazione di una messa in scena è la scelta del materiale, o dell’oggetto, che più possa sintetizzare l’essenza della storia, che più si possa prestare a essere manipolato, usato, vissuto sulla scena dagli attori, che con essi possa entrare e avere una relazione viva, non accessoria o di contorno, da installazione immobile o sterile estetica. Così, per un po’, ci siamo messi al lavorosull’esplorazione di oggetti e materiali, sulla loro manipolazione e sulla capacità di non osservarli solo per quello che sono, ma per quello che, attraverso un credibile uso, possono diventare. Da qualche parte dovevamo pur partire, e considerando che uno dei problemi principali che la storia ci sottoponeva era che a un certo punto nel terreno dove vivono i barboni zampillano in aria getti di petrolio, abbiamo pensato che intanto si sarebbe potuto cominciare dai contenitori. Ho quindi reperito e fatto utilizzare nelle improvvisazioni, secchi, bacinelle, catini e contenitori di diverso tipo. Ricordo bene quando, durante una di queste improvvisazioni, da un secchio di metallo sono stati tirati per aria dei pezzetti di carta, finiti lì dentro per caso, creando un effetto straordinario, una nuvola di carta che sembrava lo spruzzo di un getto d’acqua. Ecco l’idea. Avremmo usato la carta per fare tutto. Insieme a secchi di metallo e pezzi di stoffa bianca, il resto sarebbe stato carta e cartone per tutti gli oggetti di scena: dalle baracche dei barboni ai fiori con cui ornarle, al cibo, alle armi usate durante la battaglia contro le guardie, tutto. Per me esiste un patto finzionale, un codice, tra palcoscenico e platea per cui se un’azione e un’espressione comunicativa viene resa credibile, da quel momento diventa verosimile e il pubblico ne accetta e ne comprende il significato. Ma perché tale patto non si interrompa mai, è indispensabile una ferrea e logica coerenza. In questo divento ossessivamente pignolo, e ascoltando le proposte dei miei attori le misuro col metro del codice condiviso e stabilito sin dall’inizio, bocciandole qualora non siano a esso coerenti. Avevamo quindi individuato nella carta e nel cartone il materiale - codice dello spettacolo, e con quello abbiamo cominciato a relazionarci per giocare, costruire, inventare. Altro elemento fondamentale è stata la musica. Anche qui la ricerca delle musiche da usare per accompagnare le azioni sceniche è stata frutto di ascolto, di esplorazione. Spesso, durante i momenti di training, di risveglio, di lavoro sul corpo e sul movimento, Daniele usava delle musiche che poi sono state riproposte dagli allievi o da noi docenti, utilizzate per altri esercizi o improvvisazioni, fino a diventare l’esatto tappeto sonoro su cui sviluppare delle azioni sceniche. Per accrescere l’esperienza formativa degli allievi abbiamo chiesto loro se avrebbero avuto piacere di recitare al fianco di Andrea Kaemmerle, fin lì solo il loro insegnante di improvvisazione e clownerie. La proposta è stata accolta con entusiasmo, ritenendo tutti che il recitare al fianco di un maestro sia un grande momento di crescita e di esperienza pratica per un attore. Posso assicurarvi che Andrea ha pensato esattamente la stessa cosa, nel momento in cui gliel’ho proposto, ossia di poter vivere un’esperienza rara e preziosa, da cui anche lui avrebbe potuto imparare molto, nonostante i tanti anni passati a calcare le scene in ogni parte del mondo. Ultimo aspetto, necessario alla composizione drammaturgica, è stata la scrittura del testo, o meglio, l’ordinamento scritto di ciò che dalle improvvisazioni era spontaneamente nato e divenuto testo, dialogo. Un lavoro di “scrittura di scena”, spesso svolto direttamente dagli allievi, al termine di improvvisazioni risultate efficaci, convincenti; altre volte eseguito da me, esterno, e pronto a sottolineare ed esaltare ciò che dagli allievi veniva appena accennato, sfiorato, ma che io sentivo significativo per la nostra scrittura di scena.
Una scrittura scenica che, come detto, aveva questa volta un punto di partenza: “Totò il buono” di Cesare Zavattini. Un racconto strano, quello di Zavattini, come tutti i suoi scritti: fiabesco, pieno di fantasia, di immaginazione, di miracoli e giochi fantasmagorici, arricchito da un linguaggio semplice e immediato, “leggero” direbbe Calvino. Ottimo per un soggetto cinematografico, come infatti poi è stato, diventando il famoso Miracolo a Milano di Vittorio de Sica. Molto più difficile da ridurre teatralmente. Noi ne abbiamo realizzato una favola che, come nel racconto originale, ha per protagonista Totò, un ragazzo orfano che sogna un mondo fatto di bontà. Uscito dall’orfanotrofio, dove viene messo da bambino dopo la morte della madre, finirà col fare amicizia con alcuni barboni, li aiuterà a costruire la loro baraccopoli, ma soprattutto a creare una comunità solidale, semplice, che assiste al volare in cielo delle nuvole, come fosse al cinema, che si accontenta di un po’ di terra e una capanna per essere felice. Quando poi nella baraccopoli viene scoperto il petrolio le cose cambiano, attirando gli interessi di un potente magnate, Mobic, che acquista il terreno e intima ai suoi abitanti di andarsene via, minacciando l’uso della forza se ciò non avverrà nel minor tempo possibile. Sarà il potere di Totò di realizzare miracoli, ricevuto dallo spirito della madre accorsa in suo aiuto, a far vincere la battaglia contro Mobic. Ma quando i baracchesi capiscono il potere di Totò cominciano a chiedere, chiedere sempre di più: oggetti, soldi, beni materiali, beni inutili; così la comunità si impoverisce, si inaridisce, si pietrifica. Una condizione dalla quale potrà liberarsi solo abbandonando i beni materiali, rinunciando alla falsa ricchezza, togliendosi il peso del possedere, per tornare alla leggerezza e ricominciare a volare. Magari verso un nuovo mondo, “dove dire buongiorno voglia davvero dire buongiorno”. A poco a poco che la struttura della performance prendeva corpo, aumentava l’impegno e il lavoro. Sono stati creati i costumi di scena, adattando vecchi abiti, tingendo maglie, creando abbigliamento dalla carta. Nella seconda settimana di residenza si è unito al gruppo Wietse Ottes, un giovane tecnico olandese di nascita, ma ormai reggiano di adozione. Con lui abbiamo allestito lo spazio scenico, sia da un punto di vista scenografico, perfezionando la costruzione degli oggetti di scena in cartone e in carta; sia da un punto di vista illuminotecnico, montando fari, luci ed altri punti luce, necessari all’illuminazione della scena. La prima dimostrazione di lavoro al pubblico, infatti, era prevista per le 18.30, con buone probabilità di finire con il sole già quasi tramontato; e la seconda alle 21.15, quindi con la certezza di un sole tramontato e la necessità di illuminare il chiostro e lo spazio scenico. La bottega creativa era operosa ed emozionata. Come lo stormo di uno degli esercizi di Daniele, tutto il gruppo si muoveva in armonia, insieme, ma mantenendo la propria personalità, la propria diversità, la propria identità. È innegabile che la convivenza abbia aiutato la profonda complicità e sintonia del gruppo. Durante i giorni di vita insieme, di pranzi, di cene, di bevute di ottimo vino, di partite a biliardo la sera, il rapporto tra il gruppo si è consolidato ed è  sicuramente diventato il valore aggiunto di tutto il lavoro. Un valore, credo, che al momento di andare in scena si sia visto, sentito. Già: è arrivato il momento di andare in scena, perché nell’alchemico processo creativo è il palcoscenico che ha la prima e l’ultima parola. Ero  emozionato nel mio breve discorso di presentazione del lavoro. Mi emozionava l’idea di essere lì, dal vivo, esserci col corpo, a continuare a fare teatro nonostante tutto, e per l’idea di festa che la nostra  dimostrazione voleva essere, come espressione di una rinnovata alleanza tra scena e platea. Quello che è successo dopo sono tante emozioni, risate e lacrime agli occhi, come credo che sia stato per il pubblico, spettatore della nostra dimostrazione di lavoro. Be’, ora potrei anche osare presunzione, e chiamarlo “spettacolo”.
Credo che gli allievi, da questi quindici giorni di lavoro intensivo, si portino a casa un’esperienza unica: l’aver fatto nascere una creazione artistica, in modo collettivo, corale; l’aver assaporato il lavoro a bottega del concreto artigianato teatrale. E aver vissuto la gioia del fare teatro insieme. Da parte mia non posso che dire di essere stato fortunato, perché abbiamo avuto l’opportunità di lavorare in un posto meraviglioso, quale è lo spazio OCRA a Montalcino, e con un gruppo di allievi davvero generoso, rispettoso, impegnato, accogliente ed in totale ascolto. Un gruppo davvero maturo e sensibile. Così come lo sono stati gli amici docenti che hanno lavorato con me a questo ambizioso progetto. Tutta una squadra, l’ensemble, allievi e docenti, con cui, ora lo so, si potrebbe provare a realizzare di tutto. E per questo, ed altro ancora, so che questa esperienza non finirà qui.

 

 

Manfredi Rutelli

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